Wishing that heroes, they truly exist.

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Negli Usa tutto é scandito da date ben precise. Due weekend fa, tutte le case vicino a me tagliavano gli alberi, per dirne una, lo scorso era pieno di garage sales. Non so se ti diano il calendario di “quando fare che cosa”, con la green card, ma a me per la maggior parte queste abitudini sono sconosciute, quindi mi adeguo come posso e probabilmente lavo le federe dei cuscini del divano il giorno sbagliato ( si é vero, non le lavo proprio, ma era per dire).

Nonostante Halloween sia incalzante da un po’ e io abbia giá anche visto in vendita da Cotsco i biglietti di Natale, che la macchina del consumismo qui non si ferma mai, neanche il peggior genio del marketing puó realmente pensare di fare i soldi veri su di una festa che arriva tra tre mesi, simbolo del freddo e del gelo, nei 30 gradi umidi che ci sono sta mattina qui. Quindi, per spezzare la monotonia che va dal 4 luglio al 31 ottobre, ci hanno messo il Labor Day, che in pratica sarebbe il nostro Primo Maggio anche se effettivamente non ha nulla a che fare, se non forse per qualche origine storica a me (e alla stragrande maggioranza degli americani, son sicura) ignota, con i diritti dei lavoratori. Il Labor day, che cade sempre il primo lunedí di settembre, é sostanzialmente la data che segna la fine dell’estate e l’inizio della scuola. Nonostante qui faccia ancora caldo, il giorno dopo il Labor Day é ufficialmente autunno. Si interrompono molti mercati all’aperto, iniziano gli orari ridotti dei parchi, e soprattutto chiudono, con nostro enorme sconforto, splash park e piscine per bambini anche se il clima sarebbe ideale per continuare ad andarci.

Da qui, all dirottare le masse verso i centri commerciali peró il collegamento non é cosí intuitivo. Da noi al Primo Maggio si fanno le costine e le prime gite in montagna; mal che vada ci guadagnano i macellai e perdono i maiali, ma niente che svolti l’economia. Invece qui si sono inventati il Back To School che é la trovata geniale per convincere l’americano medio che ha bisogno piú o meno di tutto: quaderni, biro, matite, pastelli a cera, stickers, copertine per i libri, zaini, panierini porta pranzo. Come se alla fine della scuola, l’estate precedente, tutti avessero fatto un gran bel rogo del materiale scolastico ed avessero bisogno di tutto, di nuovo. Forse davvero sul famoso calendario dell’americano vero c’é una data “brucia la cartella in giardino” e io non lo so. Tra parentesi in tutto ció il mistero piú misterioso, che mi attanaglia dalla scorsa primavera quando ne cercavo uno per la mia nipote che a settembre inizierá la prima elementare, é l’assenza di portapenne tra il materiale scolastico in vendita. Avete presente quei magnifici portapenne italiani a cartucciera che potevano contenere, divisi in scomparti, 72 Stabilo, 54 Caran d’Ache, 16 gomme, penna stilo, cancellino e un set completo di squadre e righelli? Qui non esistono. Ci sono solo tristissimi astuccini con zip, monocolore, minuscoli. Tutt’al piú di latta, con qualche principessa disegnata. Sono sicura che anche qui ci sia un motivo recondito per cotanta mancanza, come per gli ovetti Kinder, ma anche questa volta, il perché mi é ignoto.

Non paghi peró,considerato che, per quanto siano adorabili, non credo che il business dei Crayola aiuti piú che tanto l’economia, la maggioranza degli sforzi pubblicitari si é concentrata sull’insediare nel cervello di ogni scolaro, la terribile domanda: “hai l’abbigliamento giusto per il primo giorno di scuola?”… Una sorta di: l’apparenza conta, l’abito fa il monaco e se sbagli il look del tuo primo giorno potresti finire tutto l’anno a pranzo nel tavolo degli sfigati. (in questa pubblicitá te lo dicono chiaro e tondo tra l’altro.) Io avessi otto anni ne sarei terrorizzata. É quindi giú a creare abbinamenti che denotino la tua personalitá al primo sguardo: l’incredibile romantica, la secchiona con stile, la ribelle ma neanche poi troppo, il quarterback popolare o il simpatico occhialuto, eccetera.

Quindi, al costo di sembrare tremendamente mia madre quando lo dico, anche il ritorno a scuola é diventato un business. Che giá il fatto di non avere nessun compito a casa, per due mesi, a me pare tremendo. Fateli almeno leggere, queste povere creature. La Capanna dello Zio Tom, Huckleberry Finn o anche solo un po’ di Roal Dahl. Due operazioni in colonna, ripassare due tabelline, non dico tanto. E invece niente. Estati oziose da J C Penny a cercare il perfetto abbinamento tra la cover del quaderno di matematica e i lacci delle All Star.

Beata gioventú. 🙂

E se volete farvi una cultura sull’argomento, basta digitare “Back to school commercial” su YouTube. Provare per credere.

Oh, he lives in a house, a very big house in the country.

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È tempo di saluti. La cosa che temo di più, prima ancora di partire dagli States per tornare a casa. La vera verità è che vorrei solo piangere e piangere crogiolandomi nel dolore di salutare quelli a cui voglio bene, quelli che d’ora in poi vedrò solo su skype, se si può, quando si può, ma alla fine mi do un contegno, sorrido e tiro avanti. Che alla fine della fiera non vado mica in guerra. E visto da una più ampia prospettiva, da piangere non c’è proprio niente di niente, siamo onesti.
Ho notato che a differenza di molti espatriati io chiamo casa l’Italia nonostante ci abbia passato un dodicesimo dell’anno. Forse perché aveva ragione il piccolo Principe e Home Is Where the Heart Is (o forse era Jim Morrison? O Vasco? In ogni caso uno di quelli che vanno forti per gli aforismi da diario di adolescente).
Comunque, ho ben poco da lamentarmi, dicevamo e molto da aspettare con ansia, in quest’estate americana.
Un altro weekend del 4 luglio, con i fuochi della mia città, nel parco, i migliori di sempre.
Quattro giorni a NY, la mostra sul fashion punk al Met (c’è ancora vero?), la prima volta al
Pond di Central Park del Sauro e allo zoo del Bronx.
Un concerto di Courtney Love. Al casinó. Che detta così è già surreale abbastanza.
Il viaggio in California. Da San Diego a San Francisco. Spiaggia, mare, disneyland e surfisti.
La halloween madmess, che il Sauro quest’anno è in grado di viversi al meglio ed ha già deciso che si vestirà da Sceriffo Woody.
Le ultime puntate di Games of Throne che mi aspettano sul registratore americano.
Le riviste di gossip a pacchi che aspettano solo di essere lette in giardino.
I pomeriggi al parco.
L’estate ad Ann Arbor.
L’iscrizione a Coursera.
Il Sauro di nuovo a scuola (ringraziando il cielo).
Il golf, sperando non faccia troppo caldo.
I bbq.
Il festival degli imitatori di Elvis.
I picnic al lago.
Target.
Il Drive In.
Despicable Me 2.

Remember days of skipping school, Racing cars and being cool.

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Partire è un po’ morire dicono. In effetti, per esperienza personale, restare è un po’ morire… Ricordo addii strazianti a chi partiva, B1 per tornarsene a Brighton, per dirne uno, e, col senno di poi era molto peggio per noi che restavamo nella nostra onorevole broda (cit.) che per lei che andava a farsela buona a Bonelloland. Partire, se si esclude per la guerra, la legione straniera o l’India, è sempre una bella cosa. Ciò non vuol dire che salutare chi ami non sia doloroso come una stilettata al cuore ma poi parti per far cose belle, vedere persone nuove e mangiare cibo straniero!
In queste ultime due (forse tre..) settimane ho salutato un sacco di gente, abbracciato un sacco di amici, alcuni che non vedevo da un po’, con la promessa di continuare a volerci bene e scriverci spesso.
Tutto ció a cene, pranzi o soprattutto aperitivi di arrivederci. Quindi ogni addio era pervaso da una leggera patina alcolica che rendeva tutto surreale e allegretto. Praticamente sono stata slightly drunk per un lungo periodo di abbracci, arrivederci e sentiamoci presto.
Da qui sono arrivata ad una conclusione (che sicuramente sarà utile al mondo intero, quasi quanto l’invenzione della penicillina), che esistono diversi tipi di salutatori:
l’entusiasta che spesso è qualcuno che ha davvero poco a che fare con te e la tua partenza, ma si dimostra assolutamente partecipe. Gente con cui fino a poco prima hai scambiato solo qualche convenevole, si premura di abbracciarti, informarsi sui tuoi scali aerei, alle volte piangere.
l’indifferente che spesso, a differenza della categoria precedente ha davvero molto a che fare con te e la tua partenza, ma fa finta che no, non ci sia niente per star lì a far tante manfrine, quindi ti dà un abbraccio veloce e ti dice “chiamami domani”. (la categoria che preferisco, a dirla tutta).
l’infiltrato ovvero quello che si si, gli dispiace che parti, ma “quanto è grossa la casa? Quando possiamo venire a trovarvi?”. (btw, venghino siori venghino, la casa è grande e il cibo ipocalorico!)
l’offeso quello che più che dispiacerti che tu parti, si dispiace per lui che resta.
il drammatico quello che oddio dove vai, oddio che coraggio che hai, oddio ma non sei terrorizzata? (no, non lo ero. Almeno prima.)

E poi ci sono quegli addii che non vorresti mai fare, perché sai che chi saluti, comunque vi comporterete, vi mancherà ogni giorno come l’aria.

Mio papà ci ha accompagnato all’aeroporto e mi ha detto “Non piangere che sarà tutto bello.”
Speriamo.

Rock and roll send us insane, I hope some day that we’ll meet again.

Sono una di quelle persone che han bisogno del “conforto delle cose”. E ne sono ben conscia, non credete, non faccio finta di essere una di quelle minimal che partono per un weekend lungo col trolley da cabina aerea. Uno dei miei timori maggiori sarebbe stato trovare un fidanzato motociclista: “Andiamo al mare, cara. Ecco i tuoi 15 cm x 20 di bauletto in cui puoi stipare un paio di mutande e un costume da bagno”. O backpacker, con essenziale zaino in spalla, vacanza in tenda canadese e doccia nel fiume. Senza balsamo. A riscoprire la vera essenza della natura, roba che, tra l’altro, chi poco poco si fa due lire, rifugge come la peste e si sposta dove c’è benessere, acqua corrente, materassi e balsamo.
Il problema maggiore del conforto delle cose, dicevamo, se si bypassa quello effettivo di rendere casa propria, in 6 anni che la si abita, stipata di roba come Versailles ai tempi d’oro, è quello che queste cose ce lesi deve portare in giro, in vacanza così come in Michigan. E quando agli oggetti di conforto miei, iniziano ad aggiungersi quelli necessari del Sauro, la cosa inizia a farsi impegnativa.
Partiamo tra 3 giorni e abbiamo in previsione tre valigie da 23 kg, il trunky del Sauro, la mia borsa a mano, lo zaino di Erre con computers e documenti, e il passeggino. Roba che secondo me dal rullo valigie alla macchina a noleggio (diversi tapis roulant e un pulmino dopo) ci mettiamo sei giri. Per fortuna che il dott. Layton mi ha insegnato come passare il fiume con un gatto e due cani che non possono mai star soli insieme! (se non l’avete capita vuol solo dire che non siete nerd abbastanza, gioitene!)
Comunque ieri si è rotto il mio oggetto di conforto massimo, un logoro braccialetto di fettuccia verde che avevo dalle scorse vacanze estive in Portogallo. Vacanze disastrose tra l’altro, nelle quali il Sauro è stato super ammalato, praticamente per l’unica settimana della mia vita, in 19 mesi. Peró era diventato parte di me, e alla vigilia della partenza, proprio il giorno in cui ho salutato tutti i miei amici più cari (ma la parte dei saluti merita un post tutto suo), si è rotto. Maya e Nostradamus non potete nulla contro la forza dei miei ammennicoli personali, sappiatelo.

In tutto ciò, peró sto diventando brava (di necessità, virtù) a sostituire gli oggetti con le canzoni, che fa figo e occupa poco spazio. Peccato solo che ad eventi specifici belli il fato abbia abbinato canzoni imbarazzantissime che mai verranno a voi rivelate, neanche se torturate il mio iPod!
La canzone della partenza, con tutte le piccole/grandi sensazioni che si porta dietro, è Goodbye Kiss dei Kashabian. Ascoltatela mercoledì, verso le 10,30, e pensatemi un po’. Starò finalmente partendo per la grande avventura.

I’m a survivor, I’m gonna make it, I will survive, keep on surviving.

Sono sopravvissuta anche all’ultima domenica pomeriggio tra amici, quella che ogni tanto mi si stringeva il cuore e pensavo “chissá quando la prossima?”, quella che sei embriachella alle tre del pomeriggio e va bene cosí.

Il Sauro é sopravvissuto alla perdita di tutti i suoi beni piú cari, dai giochi, ai libri ai colori. Sta mattina, non senza un po’ di trauma, é partito il suo amato lettino azzurro. E vaglielo a spiegare che lo portiamo nella casa nuova in America, per lui é partito, andato chissá dove. Grazie al cielo nel suo nuovo lettino provvisorio, le sue cugine avevano attaccato delle figurine dei Teletubbies, che un po’ l’hanno confortato, ma non ho proprio idea di cosa pensi, di come stia. Mi sembra un po’ piú mogio del normale, ma forse é solo qualcosa che io voglio vedere.

Per il resto, ho solo voglia di superare questa settimana di cene/incontri e aperitivi di saluti, che credo sia in assoluto la cosa peggiore del partire, perché lo rende reale. Ma d’altro canto non posso partire senza salutare, poi me ne pentirei. E tra meno di 10 giorni, partenza!! Abbiamo prenotato l’orrido residence (un misto tra il Bates Motel e l’Ibis della gita in Camargue in terza media) per i primi (speriamo pochi) giorni, comprato il letto, organizzato il ritiro dei container e delle cose partite in aereo, insomma, ci siamo.

E quando divento troppo malinconica, faccio l’elenco di tutte le cose che voglio fare, una volta arrivata negli Usa:

  • nuovo taglio, nuovo colore, magari fini dei capelli colorate di rosa (o blu). Tipo qui, che so giá che io e Lisa Rodriguez potremmo diventare migliori amiche!
  • portare il Sauro allo zoo, che adesso é in trip con leoni, scimmie e coccodrilli e secondo me si diverte un sacco.
  • riservare un sacco di voli aerei e di alberghi, perché viaggiare mi manca davvero tanto. Voglio vedere il nord del Michigan, Toronto, le cascate del Niagara, Cleveland e Chicago. Voglio andare a Miami e alle Bahamas, in crociera ai Caraibi e a Cabo St Lucas. E naturalmente a NY, portare il Sauro a vedere un musical a Broadway e al MoMa. Insomma, ogni bank holiday, festa comandata o premesso di lavoro, sará un viaggio o un’esperienza nuova.
  • far tagliare i capelli al sauro, che qui lo odia, ma confido in un pazzesco parrucchiere americano, con sedie a forma di navicelle spaziali e gas narcotizzante per non farlo urlare tutto il tempo. Adesso ha dei capelli che dubito lo faranno entrare all’immigrazione. Un mix tra un terrorista Curdo e un covone di paglia. Chissá se la mia nuova amica Lisa saprá consigliarmi un posto. Avevo trovato questo, ma é in Minnesota, tipo. Confido che esista qualcosa di simile.
  • Andare al cinema. Da sola. Che é una cosa che amo, ma qui non faccio. Quindi, non vedo l’ora di lasciare i maschi allo squallido motel ed andare a vedere Mirror Mirror all’AMC di Livonia, alle 10 del mattino con la mia boccia da 6 kg di popcorn.
  • Mangiare un burritos (uno solo, sperando di non diventare addicted come Ozzy) e un’aragosta.
  • Iscrivermi in palestra e correre sul tapis roulant con la mia tuta Pink! e la mia vitamin water.

It’s always darkest before the dawn.

Ed anche la settimana di Passione, è passata! Il container è partito ed il visto è stato approvato. Fin qui tutto bene.

Riepilogando, mercoledì siamo partiti in treno per Firenze, dove abbiamo passato una fantastica 36 ore da fidanzati, se si esclude una breve parentesi tra le piattole del primo albergo, che abbiamo prontamente cambiato fingendo di dover ritornare assolutamente a casa. Io ho interpretato una parte da Oscar, tra l’altro, alla reception.

Il consolato americano è il prefetto mix tra la cazzoneria italiana e l’efficienza/stucchevolezza statunitense. Il posto è meraviglioso, proprio in riva all’Arno, per entrare ci han spogliato di tutti i nostri averi, compresa la mia letale chiavetta USB di Angry Birds. Per fortuna all’interno l’efficienza era americana, quindi la pratica è stata rapida ed indolore, se si esclude la doppia scannerizzazione di dita e pollici. Alla fine il Counsellor ci ha pure dato la mano per congratularsi con noi della riuscita della pratica! E ne aveva ben d’onde, visto che avevamo procurato loro qualcosa come 15 cm di documenti, in triplice copia. Dal Cud all’estratto conto bancario, alla fotocopia delle chiappe del Sauro! 🙂

Dopodiché, per festeggiare il fatto che io avessi tenuto con me l’unico paio di paperine che mi stanno piccole e che mi stavano uccidendo, abbiamo camminato fino al corriere dall’altra parte della città per metterci d’accordo sulla consegna dei passaporti col visto, che sarebbero stati pronti la sera, ma non avevamo il treno di ritorno alle quattro. Cmq c’è da dire che la “fauna da visto” era variegata e sprovveduta. Un tripudio di zainetti Invicta e basic english. Roba che mi ha fatto dire che se ce la faranno loro allora ce la posso fare di certo anche io!

Il giorno dopo doveva partire il container, e questo lo sapevamo. Cosa che non sapevamo e che doveva essere alle 14 a Genova perché poi iniziava il blocco dei mezzi pre pasquale. Quindi i traslocatori sono arrivati alle 6.45. Noi ovviamente nel pieno del sonno con ancora uno scatolone da finire. Abbiamo cercato nella nostra efficienza pre colazione di fare tutto al meglio, ma chi lo sa. Qualcosa è partito, tipo il DVD player e qualcosa è rimasto, tipo il telecomando del DVD player…
Fare le valigie sarà un’impresa titanica, per non dimenticare nulla.
E in tutto ciò io neanche l’ho visto sto benedetto container… Lo vedrò in Michigan!

Always changing but never changing.

E venne il giorno tanto temuto in cui dovetti fare i conti con il contenuto dei miei armadi (cassetti, angoli, ripostigli…) e decidere cosa si, cosa no, cosa ai poveri del Bangladesh.
E poi arrivarono gli Angeli del trasloco, carichi di scatole, rotoli di pluriball, scotch e appendini. E trasformarono quella che era un’accozzaglia di si e di no in 74 scatole, ad oggi. Che mancano ancora le cose della cucina e un letto.
Che poi sarebbe mancato anche il bagno ma, solo dopo aver imballato uno ad uno qualcosa come 50 smalti, ho scoperto che smalti, cosmetici, trucchi, bagnoschiuma e medicine non possono essere caricati sul container. E manco le batterie. Quindi dopo aver imballato anche novemila giocattoli, ovviamente tutti canicchianti, giranti o soffianti ad energia elettrica, abbiamo dovuto rifare tutto da capo, smontando scatoline su schiene, ruote e tentacoli.
Ed abbiamo anche scoperto che qualsiasi oggetto elettronico, dal tostapane al vibratore (non avevamo nè l uno nè l altro n.d.r.) va catalogato e va segnato il numero di serie. Ovviamente metà dei numeri, da buoni italiani, ce li siamo inventati…
E altrettanto da buoni italiani, ci siamo inventati (si chiama “approssimazione”…) pure contenuti e valori di un paio di scatole ignote.
Il peggio è passato e in qualche modo siamo riusciti a passarci attraverso indenni. O dovrei dire riuscita, che mio marito si è dato alla macchia la maggior parte del tempo che “doveva lavorare”. Uomini…
Ora sono, per la prima volta da anni, su un treno che mi porta a Firenze. Domani ambasciata per visto, sperando che vada tutto bene e di non aver dimenticato nulla.
Per ora, essendo che fino a ieri si scoppiava di caldo e io ho messo via tutti gli abiti e le scarpe pesanti, mi sto gelando il culo dalle parti di Bologna in paperine, giacche di pelle e calze bagnate, visto che a Torino diluviava un sacco.
Vacanza bagnata, vacanza fortunata. Dicono. E buona fiorentina a me!

Cos i’m being taken over by the fear.

Non ho più scritto perché sto facendo gattini più che mai. L’esperienza americana non è stata per niente come me l’aspettassi e questo ha cambiato tutte le prospettive.
In più siamo sinceramente abbandonati a noi stessi da quelle persone il cui unico mestiere sarebbe quello di organizzare la nostra partenza. Quindi vivo nel precariato. Ancora. Dopo mesi e mesi e mesi di attesa.
E macero le mie notti coi pensieri degli ultimi saluti ai nostri amici e familiari. Quella sarà la cosa più devastante, e infatti sto pensando seriamente di andare in taxi all’aeroporto…
Fortunatamente Erre, come al solito è super supportativo ed entusiasta all’idea di partire, quindi ci mitighiamo, o meglio lui stempera il mio pessimismo imperante.
Peró sono sicura che se non cogliessi questa opportunità me ne pentirei. E bla bla.
Non so se passo più tempo a farmi nel cervello discorsi motivazionali o a smontarmeli. E tutto ciò è così tipicamente femminile!
Nell’immediato le cose da risolvere sono:
– ritirare il passaporto del Sauro
– decidere esattamente cosa portare e cosa no e organizzare la data della spedizione del container. Che prima è meglio è, visto che sono cose di cui qui possiamo fare a meno ma là no. E che ci mette 5 settimane ad arrivare. Nelle quali, in teoria noi dovemmo trovare una sistemazione provvisoria, tipo un bel residence per uomini d’affari, ambiente ideale per un bambino di un anno e mezzo.
– andare a fare il colloquio per ottenere il visto, all’ambasciata americana. Le ambasciate in Italia sono 4, Milano, che è la più gettonata con una lista d’attesa lunghissima, Roma, che però al momento è chiusa per lavori, Napoli e Firenze. Io voterei per Napoli, e due giorni sulla costiera amalfitana, giusto così per festeggiare Pasqua…
– chiudere la casa in Italia, sospendere le utenze, disdire SKY e l’adsl, controllare che tutte le bollette sian domiciliate e che non ci siano emergenze da lasciare in mano a chi resta.
E poi varie ed eventuali, cammin facendo. Un passetto ala volta, che non siamo mica qui a partire per la legione straniera! 🙂

Happiness is just a thing called Joe.

Volo di ritorno. 6 ore e 11 minuti all’atterraggio, che il volo di ritorno dura molto meno. Ora di cena, io non mangio e scrivo. Sono disgustata da un milione di pasti al ristorante e l’odore del cibo da aereo è davvero terribile. E in più ho mangiato alla Business Lounge Lufthansa.
Praticamente, per chi come me è fuori da queste logiche di viaggi d’affari, se voli spesso hai questa tessera magica e puoi entrare in queste stanze segrete, sconosciute a noi “la miglior tariffa su Expedia anche se devi fare 12 scali”. In realtà io non avrei potuto entrarci, anzi volevano farmi pagare 50 dollari, perché la tessera di mio marito non è abbastanza figa, ma un carinissimo uomo di affari ha detto al controllo che io gli sembravo una gran brava persona e che mi avrebbe invitato lui ad entrare. Mi ero ripromessa di andare a ringraziarlo una volta dentro, ma al terzo sorriso a quello che mi sembrava l’uomo giusto ma in effetti non lo era, ho desistito, per non passare da prostituta da Lounge.

Siamo partiti in perfetto orario, nonostante un tornado stesse arrivando su Detroit. Ebbene si, un tornado, welcome to United States.
Quindi pro: siamo partiti, contro: perk la prima ora e mezza siamo stati sulle montagne russe. E io odio volare normalmente ma ancora di più odio volare quando il volo è bumpy.
Contro: i nostri posti (di merda) avevano i monitor fuori uso. Pro: ora siamo in posti più belli e io sto guardando Capodanno a New York (in onore alla mia amica Beu).
Pro: i posti precedenti erano anche dietro un asilo di bambini indiani, che sento ancora urlare in lontananza contro: come farò quando il bambino sarà il mio?

Per il resto siamo tornati nella casa che vorremmo affittare e l’ho amata anche sotto il tornado. Ed abbiamo trovato un asilo favoloso. Caro ma molto molto bello, dove i bambini sembravano molto felici e le maestre non erano in sovrappeso. Siamo tornati anche al supermercato, a cercare di capire se potevamo trovare olio extravergine e latte non dopato (si e si) e ho comprato un sacco di porcherie colorate per le mie nipotine.

Nel film c’è Bon Jovi che canta, il computer di bordo dice che mancano 5 ore e 48 all’atterraggio, sto volando su Goose Bay in Quebec e tra 12 ore riabbraccio il mio bambino.
All is good.

I bambini dell’asilo stanno facendo casino.

Sono da Starbucks, nel centro (ah ah.) di Plymouth, what a cliché. Peró bevo thè, che bevessi tutto il caffè che bevono gli americani non dormirei proprio più. Avete mai preso il thè da Starbucks? Probabilmente no se non siete delle mammolette come me, comunque hanno le bustine prese direttamente dalla NASA, sono pazzesche. E il chai tea è meglio di qualsiasi cosa possa offrire Tiger. Peccato che venga servito a 200 gradi. Probabilmente perché fuori ce ne sono 2. Credo di aver scelto la stagione peggiore per visitare il paese. Tutti quelli con cui parlo mi dicono: Vedrai quando arriva il caldo… Il fatto è che in Italia sta iniziando la primavera, e qui nevica.
E la ragazza nel tavolo davanti a me sta raccontando che vuole andare a vivere in Italia, per imparare la lingua. I casi della vita.

Qui sono le 10. Io son sveglia da qualcosa come 4 ore ed ho già visitato due asili. Sono partita alle 8, in mezzo ad una bufera di ghiaccio, in macchina da sola. Ero un po’ preoccupata ma effettivamente dopo aver guidato in Italia, qui non poteva essere peggio. Qui è tutto facile, fin tanto che vai piano e guardi dove vai. Non ci sono altre regole, si può persino girare a destra col semaforo rosso, se non arriva nessuno.
L’unico problema è che senza satellitare sarei completamente persa. Le strade si somigliano tutte. Ho pensato un paio di volte: bene, questa strada ha sei corsie, dev’essere la principale e poi aver girato ed essermi ritrovata in un’altra magnifica strada a sei corsie. Nel mezzo di laghetti, boschi, gruppi di case dalle pareti di legno dipinto (molto caratteristiche, ma assolutamente non coibentate e piene di muffa), Starbucks, Macdonalds e Chiplote. Un paio di volte ho anche pensato di prendere qualche punto di riferimento, ma no. Troppe cose tutte uguali, troppo vicino. E un sacco di scoiattoli schiacciati. Qui gli scoiattoli sono come da noi i piccioni, tanti e affamati.
Quindi mi affido al navigatore. E non all’istinto, che solo per arrivare qui sono passata da tre Main Street (nord, west e drive).

Ma passiamo agli asili. Essendo che nessuna persona che conosciamo qui ha bambini ho dovuto arrangiarmi un po’ come potevo, con Google e le sue mappe (che riassume un po’ la mia vita, ora come ora…). Ne ho scelti 3, basandomi solo sulla posizione sulla cartina. Il primo sarebbe perfetto, è a 300 metri dal lavoro di Erre e c’è pure lo sconto aziendale (per loro e per gli impiegati della fabbrica di dildi di gomma che gli sta di fronte, presumo, ma questa è un’altra storia). La persona che mi ha portato in giro mi è sembrata adorabile, anche se dopo aver conosciuto le maestre dei nidi della mia città mi sarebbe sembrata adorabile anche la moglie di Lucifero. Le classi sono divise principalmente in base all’età e alle capacità personali (quindi il Sauro stará nella prima classe fino a quattro anni, diciamocelo!), le maestre sono adorabili, le classi super attrezzate con piccole sedie, bauli dei travestimenti o spazi per colorare. Le maestre portano fuori i bambini idealmente due volte al giorno, anche con la neve (siamo in Michigan d’altronde). E la cosa migliore é che i bambini, tutti quanti, mi son sembrati felici. Niente lacrime, niente mocci, niente puzza di cacca, che ci sarà sono sicura, ma ben mascherata.
Il secondo asilo invece non è stata una gran bella esperienza. Sarà stato il quartiere, sarà stata la frequentazione (perché non è facile non essere snob quando si parla di tuo figlio) o il peso specifico delle maestre. Che se per caso una si inciampa in una sediolina, mi ritrovo una sottiletta non un figlio. O forse il terribile accento della responsabile, di cui ho capito più o meno 1/3 dei discorsi.
Per ora il dildo baby parking vince. Vado a vedere il terzo.