Mama said eat those green beans and everything will be alright.

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Fare la spesa negli Stati Uniti è sempre stata un’esperienza mesmerizzante per me. Tipo che se non faccio attenzione e mi faccio una bella lista di tutto quello che mi serve, e soprattutto di quello che NON mi serve, esco fuori tre ore dopo avendo speso cinquecento dollari in caramelle gommose e gadgets dei Tigers, dimenticando il latte. Il peggio del peggio sono i megastore dove non vendono solo alimentari, tipo Mejier, per farvi un esempio. Ecco io in nove mesi qui, ho capito una cosa: non ci devo entrare, se non con uno scopo ben preciso. E soprattutto non devo entrarci quando ho tanto tempo o sono affamata. Anche Walmart è il male. Una volta, incoscientemente, ci sono entrata col Sauro, dal reparto no-food e abbiamo passato un’ora e un quarto a provare una ad una tutte le macchinine elettriche e le biciclette ed ho dovuto fare appello a tutta la mia forza di madre tiranna, per non farlo uscire seduto su una replica di Francesco Bernulli, in scala 1:1.

Fare la spesa è una delle cose che mi piacciono di meno. In Italia odio le code alle casse, il casino, le offerte lacunose e le cassiere sgarbate. L’offerta di cibo mi fa venire la nausea e spero sempre di non vomitare davanti al banco del pesce quando ci vado presto al mattino. Qui è anche peggio, non ci sono code e le cassiere sono adorabili ma passo le ore a cercare quell’unica cosa, di cui non so bene il nome in inglese e non faccio che fare avanti ed indietro alla ricerca del dado vegetale perduto. (O baking soda, o aceto balsamico che sia.)

E comunque certe cose non le capirò mai. Com’è che le teglie di alluminio, quelle usa e getta, nel quale dovevo cucinarci le lasagne, sono tra lo zucchero e la farina? Vabbè che puoi cucinarci anche i dolci, ma per la miseria un po’ di elasticità mentale. E io comunque continuerò a cercarle vicino ai tovaglioli di carta ed ai bicchieri di plastica com’è giusto che sia. Poi odio che l’olio e l’aceto non siano vicini. Perchè, americani, mi fare questo? E che le verdure surgelate siano vendute tagliuzzate. Non voglio i vostri cavolo di fagiolini lunghi mezzo centimetro, mi sembrano pre masticati. E gli spinaci tritatini che sembrano o granita di spinacio o prezzemolo in grandi quantità? E per giustificare tutto ciò dan dei gran bei nomi. Ci sono i fagiolini alla francese, che sono tagliati per lungo o quelli all’italiana, che sono piselli, col bacello, anche quelli affettati.

La vera verità è che per il 99% degli americani, cucinare non è un’opzione. Nel senso di prendere una cosa (una patata, una carota, un uovo…), lavorarla (pelarla, bollirla, strapazzarla), unirla a qualcos’altro e metterla in forno è una delle sfide che ancora non sono riusciti a vincere. E non dico fare un soufflè di formaggio con crema di tartufo, ma una semplice frittata di cipolle. Io mi scandalizzavo tanto di recente, per chi compra gli spinaci o i fagiolini bolliti pagandoli oro nelle gastronomie italiane, ma qui è decisamente peggio. Comprare le patate così come madre natura le ha fatte probabilmente non è un’alternativa molto allettante, quando le puoi trovare, in busta, surgelate, al gratin, con le spezie e tagliate a forma di Mickey Mouse e semplicemente metterle nel microonde. O in forno con un ramo di rosmarino se la sera prima hai visto Anthony Bourdain. Le verdure si trovano già pulite, tagliate e assemblate, stessa cosa per la frutta che in più viene gelatinata e venduta come una porzione di frutta più che naturale. La quinoa, per dirne una, che mi dico uno che compra la quinoa già un minimo di cultura alimentare la deve avere, viene venduta solo ed esclusivamente condita – alla mediterranea, all’indiana, alle spezie dell’orto. La quinoa è basta non esiste. O forse esiste e io non la trovo, opzione assolutamente possibile.

Tutto ciò per dire che la mia spesa, in media, è diversa da quella degli altri nonostante anche io compri la mia buona dose di patatine e budini al cioccolato (per il sauro, che credete…), però non credevo di essere così fuori dalle righe. C’è da dire innanzi tutto che, soprattutto nel mio supermercato del cuore, c’è una serie di casi umani al personale da far impallidire il nosocomio di Collegno, tra cui il mio imbustatore preferito che, avendo la testa completamente (ed evidentemente, aggiungerei) pelata, riesce a farsi un mitico riporto dai capelli della nuca che finisce in una frangetta bombata anni novanta da fare invidia a Federica Moro in College. Comunque, tutto ciò per dire che sta mattina ho comprato due finocchi (finocchi eh, non pere matin sèc…) e la cassiera, al momento di passarli sullo scanner – visto che qui è la cassiera a pesare e prezzare anche le verdure – mi guarda smarrita e mi fa: “E questi cosa sono?”. Io basita, e incerta sulla pronuncia, con sguardo smarrito dico: “Fennels?”. “Ah, e cosa sono?” “Vegetables?”. “Aspetta qui che vado a chiedere alla mia collega.”

Dopo un po’ è tornata e mi ha detto che i finocchi non c’erano a sistema ma che lei metteva ANISE, che è la stessa cosa. Due dollari e 99 al pezzo. Al che io ho accettato sconsolata che per quanto ne sapevo io l’anise è anice, ma in effetti non avevo esattamente idea di che forma avesse l’anice nella vita vera, e qui poteva pure essere finocchiforme. La stessa cosa si è ripetuta con i Bok Choy, il cui il nome fa tanto paura ma è la risposta cinese alle nostre costine, che qui fatico un po’ a trovare. Di queste però sapevo il nome, e le ho pagate i miei dovuti 96 centesimi. Che se lasciavo fare a lei mi avrebbe detto che erano le foglie dell’albero dei Dodo e me le avrebbe fatte pagare 10 dollari al pezzo.

Ps. The day after. I finocchi si chiamano effettivamente Anise. E costano come l’oro.

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