We could be starving, we could be homeless, we could be broke (as long as you love me).

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Un anno fa, piú o meno a quest’ora, mi preparavo a lasciare l’Italia dopo una notte praticamente insonne, con le valigie strapiene, un milione di paure, tante aspettative, la voglia di cambiare e la paura di non sopravvivere alla solitudine. Il primo viaggio intercontinentale del Sauro é stato surreale, se penso ai successivi da frequent flyer navigato, sempre sempre sveglio e sovreccitato, tanto che, una volta arrivati, superati i controlli doganali, preso valigie e pulmino per andare all’autonoleggio a prendere la macchina, una volta sul seggiolino ancora ancora sbraitava alla vista degli aerei che atterravano lí vicino. Io ed erre basiti ed esausti.

Ho appena riletto cosa avevo scritto pre partenza/post arrivo e un po’ invidio tutto quell’entusiasmo e quell’adrenalina. Sará che sono in un periodo un po’ cosí, in perenne lotta con la sanitá americana cosí poco garantista e cosí tanto meritocratica (e per merito si intende l’ammontare del conto in banca ovviamente), decisamente homesick ora che ho avuto per un po’ di tempo i miei bimbi italiani in casa, un po’ troppo disincantata dai rapporti umani tra gli abitanti del Michigan, decisamente complicati se non sei uno di loro. Mi manca il calore delle chiacchere con le mamme all’uscita dall’asilo, il panettiere che ti chiede se vuoi il solito, incontrare la tua compagna delle medie per caso al supermercato e raccontarsi tutto in dieci minuti. Poi ovviamente ci sono anche tantissime cose che non mi mancano: le beghe famigliari, le visite comandate, le poste italiane, i parchetti ripieni di cacche e sigarette, la guida dell’italiano medio, la mancanza di parcheggi e di opportunitá in generale. Peró mi mancano i quotidiani, quelli si, forse piú della mozzarella. La patina catramosa che ti lasciano sulle dita, l’odore e le parole. Quelle per cui ti infervori e ti indigni, quelle che ti fan piangere e sorridere. I quotidiani online non sono per niente la stessa cosa. E per quanto io sia una fervente sostenitrice dell’industria del gossip, alla fine che le uniche notizie siano quelle sull’arresto di Reese Whinterspoon e sul clima, infastidisce anche me.

Quindi, se sono d’accordissimo sul fatto che tutti i ventenni dovrebbero lasciare il paese (e le mamme italiane che stirano i fazzoletti e preparano le valigie) per un anno, come una sorta di servizio militare, senza i fucili ma con lo scopo di imparare cosa c’é lá fuori. Come si vive. Come si pensa. Lontano dalle tette/culi in tv, lontano dalla politica volta solo ed esclusivamente al distruggere cercando di dare la colpa al prossimo senza pensare a costruire nulla, dalle battute sui finocchi, sui Caplippo, sul Ma lei quando viene?, dai soloni universitari che “oggi non ho voglia l’esame é rimandato a domani”, dal calcio e soprattutto dai suoi beceri tifosi e i loro squallidi sfottó, da Maria De Filippi, dal Lei non sa chi sono io, dal La prego signor vigile ho lasciato l’auto nel parcheggio handicappati solo dieci minuti. Capire che si vive anche senza corsie preferenziali e calci in culo e che é molto piú bello se una cosa te la guadagni tu invece che dare il merito alle mazzette dello zio dirigente. Rendersi conto che alla fine la scorciatoia non paga perché va comunque a scapito di qualcun altro. Imparare a fare lavoro di gruppo, sempre e comunque. Che essere orgogliosi della propria cittá non significa buttare merda su quella che c’é vicino.

E una volta imparato peró, dopo aver studiato e letto e guardato e vissuto, dopo aver fatto il lavapiatti a Londra per 3 pounds all’ora e aver fumato marjiuana in Thailandia attorno ad un fuoco con gente che viene da 3 continenti, dopo aver studiato biologia marina all’universitá di San Diego o raccolto mele in Chile, allora bisogna tornare. Perché uno puó avere tante bellissime e molto coerenti convinzioni da dietro il proprio pc, nella cameretta di casa propria, puó aver ascoltato le esperienze degli altri, puó essere andato in vacanza a Cuba, ma non é abbastanza per imparare qualcosa davvero. Ma poi le cose imparate bisogna metterle in atto.

Quindi nonostante i malumori, le difficoltá e, porcadiquellazozza, la neve a fine aprile, il bilancio di quest’anno é comunque sicuramente positivo perché ha insegnato qualcosa, un sacco di cose, a tutti noi. Io ho affrontato una ad una le mie paure, alcune le ho vinte, altre le ho archiviate in attesa di giudizio. Per molte ho fatto gattini. Il Sauro ha imparato l’inglese, ad essere buffo quando lo si sgrida, ad amare i libri, i treni e le uova con sorpresa. Ad usare YouTube. A fare la pipí nel vasino, che gli piacciono i gamberetti ma odia l’avocado e quant’é bello giocare ai camion con Patrick, a scuola. Erre ha imparato a sopportarci in questa ristretto menage famigliare da cui non si scappa con troppa facilitá e che far guidare una donna non lede la sua mascolinitá. Ma piú di tutto abbiamo imparato che puoi allontanarti dalla tua terra di origine quanto vuoi, ma prutroppo/perfortuna, te la porti dietro comunque.

Your here and I’m here, so I stop complaining it could be raining.

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Qui la temperatura è diminuita di 20 gradi in una notte. Gradi Celsius, quelli seri, non quei gradi Fahrenheit farlocchi che ci sono qui, che sposti il termostato di 10 gradi e fa sempre caldo o sempre freddo e, cosa più importante, io non ho ancora ben imparato a convertire. Venti gradi, dicevo. Da 25 a 5 per l’esattezza, e il Sauro si è preso il raffreddore, il che é considerato un mezzo miracolo da me. Solo un raffreddore dico. Devono essere stati tutti quegli anticorpi presi dal rinfilargli in ciuccio caduto in ogni condizione di (non) igiene, quando era piccolo. É finito sotto lo scaffale del supermercato? O nella sabbiera del parco giochi o in una pozzanghera, per dire? Soffiata, asciugata e via in bocca.

Però adesso mi trovo un torello che non ha mai preso un antibiotico in due anni e s’è saltato un solo giorno d’asilo in sei mesi. O questione di culo, probabilmente. Ma tant’è che ci ritroviamo qui a passare dalla canottiera alle previsioni di neve in meno di ventiquattro ore.
E come al solito mi troverò impreparata, che da Cotsco ho visto slittini e muffole e moonboots, ma fuori c’erano le palme assolate e l’afa estiva e non me la sono sentita di provare la giacca di goretex al Sauro. Ovviamente ho sbagliato. Quando la neve arriverà davvero, nei negozi ci saranno già i costumi da bagno e le infradito.
Adesso, nonostante la divagazione climatica, quello che volevo proprio dire è che, strano ma vero, ho trovato un’altra categoria da detestare. Chi l’avrebbe mai detto, io che son così sempre cristianamente ben disposta verso il prossimo?
Partendo dal presupposto che le mamme online in genere non sono, come si dice a Londra, my cup of tea, pur essendo una di loro. E avendo aperto questo blog con segrete velleità di bestseller, presto smorzate dal realizzare quante marchette si debbano fare per vendere qualsiasi cosa, unitamente al fatto di quanto suonassi più sagace e brillante nella mia testa che nero su bianco, leggo comunque le altre. E, per la maggior parte, le odio. Ma ovviamente le leggo. È più forte di me, come girare la testa in autostrada quando si passa accanto ad un incidente: non vorresti vedere, ma guardi.
Sono le mamme all’estero. Le #expat.
Quelle che si credono più fighe delle mamma #inpat perché allevano un figlio (due tre quattro) all’estero.
Allora, partendo dal presupposto che io sono una di loro, vi assicuro che non c’è niente da sentirsi fighe.
Privilegiate, forse. Fortunate, sicuramente. Ma le fighe son quelle che si barcamenano tra tre figli, un lavoro part time in nero, un marito in cassa integrazione e i figli in quello sfascio di scuola italiana “GrazieGelminiGrazie” dove ad inizio anno bisogna portare i colori e la carta igienica perché non ci sono i soldi per comprarli. Le mamme all’estero anno spesso fanno solo le mamme, punto primo. Che può essere faticoso finché vuoi, in un ambiente sconosciuto, ma anche stimolante e divertente ve lo assicuro. Inoltre gli stipendi all’estero, per la maggior parte, sono stratosferici, almeno comprati a quelli italiani, e questo fa, ve lo dico io. Quindi magari tuo marito sarà poco a casa perché in giro per l’indocina, ma sticazzi il conto in banca ti ripaga ampiamente per la perdita.
E queste si lamentano. Del cibo, in primis. Ma io mi domando e dico, se volevi crescere il pupo a lasagne e caponata, che cazzo ti sei trasferita a Philadelphia?!? Il cibo delle scuole americane non è il massimo, lo ammetto. Il Sauro viene tirato su a panini di burro di arachidi di soya e pizza rolls, a scuola. Ma non morirà certo per questo. E io non mi sogno neanche di rinfilargli il pranzo al sacco con la parmigiana di melanzane bio, storcendo il naso verso tutto quello che è diverso. Loro fanno apparire tutto difficile dove io so benissimo non lo è. E a me non fregano, che io sono una insider!
I bambini non patiscono gli addii degli amici in patria, se ne fregano che le maestre parlino un’altra lingua e di sicuro non gli manca la mozzarella di bufala. I bambini non hanno le diecimila sovrastrutture mentali che abbiamo noi e se la godono a Torino come a Detroit. Sono le madri che fanno apparire tutto grande. Forse perché gli manca l’appagamento della busta paga, appunto.
La vita da #expat è una pacchia senza se nè ma, ve lo dico io.