Gonna live while I’m alive. I’ll sleep when I’m dead.

 Sta notte ho fatto i conti. Sono 490 notti che non dormo 8 ore di fila. Neanche 6, se é per questo, ma 8 son quelle consigliate dagli esperti di Glamour e Marieclaire per avere la pelle splendida e i capelli lucidi come l’oro.

Che a dirlo in giro la gente non mi crede. Il BabySauro ha la faccia d’angelo, l’occhio ceruleo, la guanciotta paffutella, il sorriso facile e ahimé, il sonno leggero. Che poi non é mica solo colpa sua poveraccio, anche suo fratello contribusce alle pene notturne, ma la somma di tutto ciò si abbatte su di me e sulle mie notti, senza pietà. Questa notte ad esempio ero reduce da una nottataccia incubo vomitosa del Sauro e, manco a dirlo, sola, e mi son trovata a dover accudire un bambino che, senza motivi apparenti, ha deciso di tenermi sveglia dalle 2 alle 3.30.

Comunque io non ho perso tempo, ed ho stilato un decalogo delle cose che passano nella testa di ogni madre, che non dorme da cinquecento notti:

  1. Innanzi tutto, al primo piantino, si prega. Io divento devotissima della Madonna, di San Giuseppe, di Gesú bambino o di padre Pio. Qualsiasi divinità cristiana o pagana mi passi per la testa é invocata senza indugio. Le provo tutte perché, una volta su 10, il piantino non prosegue, il BabySauro si gira dall’altra e riprende a dormire, con buona pace mia e di tutti gli abitanti dei cieli.
  2. Al secondo piantino, si fanno i fioretti. Dai più banali: “se lo fai smettere (san Gennaro, Madre Teresa, santa Kate Moss), non mangerò più la cioccolata per un mese” ai più articolati: “Ok, se adesso non si sveglia e riesco a dormire almeno fino alle 2.47 da domani inizio la dieta, solo verdura. E vado a correre. E mi iscrivo in palestra, che mi sono già anche salvata il numero del personal trainer. Si, si, lo chiamo e gli dico che voglio perdere 20 kg. Ecco, adesso si che ho la motivazione giusta e poi finalmente potrò entrare in quel bikini di Victoria Secrets che ho comprato e mai messo…” (ovviamente la maggior parte delle volte lui non smette e io mi butto sui Duplo)
  3. L’accettazione. Ok piange. É innegabile. Non é un piantino, non passa, devi fare qualcosa prima che svegli suo fratello. Quindi si striscia fuori dal letto, in piena notte e si raggiunge il lettino, dove si cerca di consolare l’urlatore nella maniera più rapida possibile. Il più delle volte ci si addormenta in piedi. Cosa che io prima di aver figli credevo fosse una leggenda metropolitana e invece mi capita quotidianamente. Mi piego ad L, appoggio la fronte sulla sponda del lettino, porgo la manina al pargolo urlante e cerco di recuperare 30 secondi di sonno. Questa operazione può durare dai due minuti alle due ore.
  4. La blanda lamentela. Tra sé e sé ovviamente, che non c’é nessuno a cui poter esternare le proprie pene. Robe tipo: “Certo che sono proprio sfortunata, io non lo so come faccio ad essere ancora viva. Eh si, dovrei essere morta. Stecchita. Chissà se qualcuno si accorgerebbe della differenza. Certo che una vita così proprio non me la merito. Perché a me? Proprio io, con tutte le sfortune che già mi ritrovo…” [Questa fase può sfociare nell’invio di un sms notturno di insulti al coniuge che dorme beatamente in una stanza d’albergo del nord Europa e che al mattino potrebbe azzardarsi a pronunciare frasi del tipo: “Certo che il mio letto king size con lenzuola di cotone egiziano, i figli a 600 km di distanza, il room service  e la sveglia con gli uccellini non era poi così comodo.”, provocando una crisi coniugale non da poco.]
  5. Quindi segue la rabbia. La furia assassina proprio. Fortunatamente non verso l’urlatore che anche nel dramma resta coccoloso e dice cose tipo Mammaaaaaa con gli occhi a cuore mentre cerca di infilarti il suo ciuccio nel naso. Io in particolare me la prendo con i ladri, i manigoldi e i fuori legge che potrebbero popolare il mio giardino cercando di introdursi in casa. Che dovete sapere io ho un’avversione verso le tende alle finestre, quindi quando vago in giro per casa nel cuore della notte, soprattutto quando son sola, vedo decine di ombre e mi convinco siano estranei che stanno per intrufolarsi nel mio salotto. Quindi prima mi spavento. Poi sono talmente incazzata che inizio a pensare: “Ma se davvero fosse un ladro, sai quante botte si prende? Ho anche la mazza da baseball autografata da Cabrera vicino al letto. Che entri solo e gli faccio vedere io…” e da qui partono una serie di film mentali su di me che maltratto i lestofanti (che spesso hanno le fattezze di un mix tra Rhett Butler e Diabolik). Grazie al cielo niente di ciò é mai capitato al di fuori del mio cervello.
  6. La rassegnazione. A questo punto si é quasi completamente svegli e non si cerca più di addormentarsi. É passata almeno un’ora dal primo piantino e finalmente ci si rende conto che la tecnica “speranze e bestemmie” non basterà. Quindi si prende, per forza di cose, in mano la situazione. Si somministrano sciroppi e supposte, si cambiano pannolini, si prova con l’acqua e zucchero. Si canta, si culla, si stringono manine. Ogni tanto funziona.
  7. Ogni tanto no, quindi si passa alla fase: faccio a pezzi tutte le mie convinzioni, pur che faccia sta cavolo di nanna. Quindi ci si dimentica della pedagogia e si mettono in atto le peggio nefandezze: si danno cucci a bimbi a cui non sono mai stati concessi. Ciucci intrisi di miele o Nutella. O entrambi. Si aprono le porte dei lettoni. Li si lascia da soli in un lettone di quattro metri per quattro mentre si va a dormire sul divano o nel loro lettino con le sbarre da un metro. O per terra. Li si li tengono in braccio, cullandoli saltellando su una gamba sola, cantando e contemporaneamente servendo biberon di ambrosia.
  8. L’ammissione della sconfitta. Ok bambino, hai vinto tu, contento? Possiamo sederci sul letto e guardarci negli occhi. Possiamo giocare e tu puoi fare dei versetti. Puoi saltare sul letto. Puoi infilarmi le dita del naso, cercare di salirmi in testa. Colorare con i pennarelli indelebili sulla mia fronte. Sono totalmente soggiogata al tuo potere.
  9. La disperazione più totale. Ormai mancano tre ore alla sveglia. Un’altra notte persa. E lui sta continuando a fissare i quadri sopra la vostra testa con gli occhi spalancati. Ti viene da piangere. Inizi a ripensare al giorno più bello della tua vita: quella Pasquetta del 2003 quando ti sei svegliata e il sole stava tramontando sul mare. Avevi dormito tipo per venti ore di fila. Certo che quelli erano bei tempi. Senza figli, domeniche intere in posizione orizzontale. Svegliarsi, mangiare e tornare a dormire. La tua idea del paradiso adesso.
  10. Il sogno ad occhi aperti (ovviamente): e da qui parte un volo pindarico. Inizia con qualcuno (il più delle volte tuo marito) che ti dice: “ti ho fatto un regalo. Puoi andare in quell’hotel questa notte, da sola. Dormi, goditela, ci vediamo domattina.” E ti immaginerai in quel lettone, alle sette e mezza/otto di sera, sprofondata nei cuscini, con davanti 15 ore di sonno ininterrotto. La cosa più bella che puoi immaginare. Niente Caraibi o borse griffate. Una notte in un motel tre stelle nell’interland torinese.

Poi finalmente, ogni volta, quando hai perso totalmente la speranza, il bambino si riaddormenta. Il più delle volte con il pannolino a tre millimetri dal tuo naso o con un gomito che ti punta nelle costole. O entrambe le cose. Ma tu sei troppo spaventata che si risvegli e troppo esausta per fare qualcosa. Quindi ti addormenti così, per quelle successive due ore e mezza di sonno ristoratore che ti separano dalla sveglia. E pensi che prima che tu te ne accorga, saranno adolescenti dormiglioni. Forse.

We crave a different kind of buzz.

 Dell’America mi mancano tante cose. Potrei state qui per ore ad elencare l’efficenza delle Poste, la gentilezza della gente che incontri sui marciapiedi o la comodità del poter controllare/prenotare/comprare qualsiasi cosa su internet. Ma la verità é che servirebbe solo a far deprimere me e far pensare a voi: “ma questa cos’é tornata a fare?”. Quindi vi dirò la cosa scema che mi manca di più. Quella che non avrei mai pensato mi sarebbe mancata: HOME DEPOT.

Qualsiasi expat sia stato negli States, ho notato, ha sviluppato una dipendenza (o anche affezione morbosa) per la suddetta catena di Fai Da Te. Cioè, tanto per capirci, non mi manca l’uso smodato del leopardo nei vestiti di Forever XXI o i saldi di Gap prendi1-teneregalo3 o gli smalti Opi a 4.99 $, come sarebbe normale. Mi manca il Brico. Quello che vende strumenti di tortura medievale per far fuori le talpe e cassette della posta a forma di trota. Mannaie e pale e cesoie che la prima volta che li ho visti ho pensato: ecco come faceva Dexter. Alberi di natale, zucche di halloween e bulbi di tulipano. Porte scorrevoli, serre e serrature. Tutto sotto lo stesso tetto.

Innanzi tutto Home Depot é aperto sempre. Tutti i giorni fino a tarda sera. Hai bisogno delle pile e sono le 23.30? Hai deciso di piantare i pomodori alle 6 della domenica mattina? Vuoi semplicemente portare tuo figlio a fare un giro sui tagliaerba in esposizione, che per intenderci sono grandi come una Fiat 500, mentre fuori c’é -20? Un Home Depot a 10 minuti da casa ce l’ha chiunque, e sono enormi e spesso deserti. E la cosa più bella sono i commessi, spesso anziani in pensione (che con le non-pensioni americane devono comunque lavorare) con la mania del bricolage: ce n’é sempre uno ad aspettarti all’ingresso, con il suo gilerino arancio a distinguerlo dagli altri anziani appassionati di bricolage. Quindi io entravo, braccavo l’anziano di turno e gli sottoponevo il mio annoso problema:

  • mio figlio aveva una torcia di Buzz Lightyear che mio marito sostiene di aver preso da voi e adesso ha perso. Dove posso ritrovarla?
  • é il periodo giusto per piantare i pomodori? Non l’ho mai fatto prima  in vita mia, cosa mi serve?
  • sono al nono mese di gravidanza e mi é venuta una tremenda voglia di sverniciare il parco giochi di mio figlio, mi affittate un’idropulitrice e mi spiegate come usarla?
  • ho visto questo gioco con i chiavistelli online e voglio rifarlo uguale, mi vende tutto l’occorrente?
  • pittura giallo limone della Florida?
  • mangime per uccelli?
  • repellente per pipistelli?

E sempre, il gentile non-pensionato ha trovato la soluzione al mio problema e mai mi ha giudicato. Forse ha solo usato un po’ a volte lo sguardo di accondiscendenza di chi si trova una casalinga bionda che non sa di cosa sta parlando, ma come biasimarlo? Sempre, tranne per i pipistrelli. Che a quanto pare in Michigan puoi trucidare le talpe senza pietà, mettere i collari elettrici ai cani, sparare ai procioni, investire i cervi ma i pipistrelli no. Che poi io mica volevo farli fuori, mi bastava la smettessero di fare la cacca sul mio portico. Quaranta centimetri più in là, nel giardino andava benissimo.

Comunque, non  tergiversiamo. Home Depot mi manca. Era il mio Pinterest, dal vivo.  Avete presente quando iniziate a pinnate tutte le cose manuali che vorreste fare? E siete assolutamente convinti che domani a colazione farete la torta di pancakes di Martha Steward, poi i vostri figli si alzeranno dai loro lettini/casa sull’albero che avete costruito con i pallets riciclati, si metteranno i leggings arcobaleno che avete cucito a mano e apparecchieranno la tavola con le vostre tovagliette americane che avete decorato a punto croce con le frasi motivazionali di Lena Dunham? (Ognuno ha i suoi sogni, oh) Per me entrare da Home Depot era la stessa cosa. Mi perdevo nelle corsie degli impregnanti, pensando a come avrei riverniciato quel tavolo di blu, affittavo la lava moquette e mi davo alle pulizie di primavera (sei volte l’anno), ho comprato e piantato talmente tulipani che adesso ad aprile a casa di Roger sembra di essere a Pralormo!

E poi all’uscita vendevano gli hot dog. Ne vogliamo parlare?

She’s got her God and she’s got good wine, Aretha Franklin and Patsy Cline.

IMG_0380 Dieci motivi per cui avere una ragazza alla pari americana mi ha cambiato la vita (in meglio eh!):

  1. Posso permettermi di non essere più costantemente multitasking: smetterla di seguire un corso online senza cuffie perché il Baby Sauro al piano di sotto potrebbe svegliarsi improvvisamente dal riposino; cucinare cena con una palla al piede attaccata alla  mia caviglia e che mi trascino in giro per la cucina – che nella fattispecie é un bambino di un anno – o trovarmi a fare riunioni su Skype in mutande (tanto mi si vede solo dal torace in su) con il Sauro che cerca di mettermi lo smalto sulle dita dei piedi accucciato sotto la scrivania, mentre io dissimulo. True story.
  2. Di conseguenza posso essere più brava in tutto quello che faccio perché finalmente faccio una cosa alla volta (o anche due ma é sempre un grandissimo passo avanti). Sia che lavori, giochi con i bambini o mi faccia la tinta, sto facendo solo quello. Hip hip-horrey.
  3. Non lavoro più dopo le 18, salvo eccezioni importantissime. (perché si, ho ricominciato a lavorare!)  Dalle 9 alle 18 ho tutto il tempo del mondo e ci incastro anche la spesa e la colazione con le amiche. Prima, lavorando da casa, la fascia lavorativa più gettonata era dalle 22.30 alle 2. Ora (le 2!) in cui normalmente il Baby Sauro si sveglia costantemente per qualche motivo a me ignoto. Poi alle 5 tocca a suo fratello, con le richieste più assurde, tipo “perché le mamme non hanno i baffi?” o “Ma tu sai dov’é quella macchinina verde che avevamo trovato in quel distributore automatico in Michigan nel 2012?”. Che nelle le mie notti non ci si annoia mai. Però almeno di giorno c’é ordine e disciplina. (E tempo per i riposini, volendo)
  4. Lei é meravigliosa e giovane e può fare pisolini di 20 minuti mentre il Baby Sauro dorme e non svegliarsi con la carogna come capita a me se dormo meno di 2 ore di fila. Canta bene, legge i libri in inglese con pronuncia perfetta (ovviamente) e i bambini la adorano. Quindi lasciarli con lei non è mai un peso. (ammesso che riuscire a liberarsi dei figli in qualsiasi situazione possa essere considerato tale!)
  5. É americana, quindi qualsiasi cosa di italiano le dia da mangiare, lo trova delizioso. Nessuna ansia da prestazione da dover cucinare le lasagne a pranzo perché poi “non mi mangia”.
  6. É americana quindi possiamo entrambe passare 24 ore in pigiama struccate senza che nessuno venga giudicato.
  7. É americana quindi io faccio esercizio. E il Sauro ha ripreso l’inglese come non avesse mai smesso di parlarlo. E il Baby Sauro schiocca baci sia che gli si dica Bacio che Kiss.
  8. É americana , quindi é a conoscenza di argomenti basilari come gli avanzamenti sulla detenzione di Teresa Giudice o il perché hanno sospeso il programma tv Here Comes Honey Boo Boo. E possiamo parlare di quanto ci mancano le ciambelle glassate e i frappuccini e le patatine al lime.
  9. Ho sempre qualcuno con cui dividere un bicchierino di rosso pre-cena senza sentirmi Bree Van De Kamp (nel periodo casalinga segretamente alcolizzata moglie di Kyle MacLachlan).
  10. Posso finalmente uscire a cena con gli amici. Senza pannolini e omogeneizzati in borsa. Senza sapere a priori dove andremo. Senza dover chiedere se c’é il seggiolone. E se proprio voglio una botta di vita, possiamo anche concederci una birra al pub dopo. (Cosa che ho fatto, pagandone le conseguenze per una settimana…)

I am the worst thing since Elvis Presley.

IMG_0118 Rieccomi. Dopo più di sei settimane e almeno il doppio dei post in bozza. Che poi ho deciso di non pubblicare perché sull’onda dell’emozione da rientro avrei detto cose vere solo in parte. Riassumendo, sono tornata in Italia mentre sul web impazzava l’ice bucket challenge (qui il migliore IMOO) e io stessa ho fatto parecchie docce gelate, figurate o meno. Il ritorno da un paese che fa dell’efficenza, la cortesia, il senso civico, la pulizia e il rispetto per tutti, la sua bandiera é stato più duro del previsto. Una serie di imprevisti poi hanno reso le cose ancora un pochino più difficili, però adesso ci stiamo finalmente assestando e riabituando alla vita italiana. Vero é, che come si dice, once an american always an american… Ecco le cose, nel bene e nel male, che mi sono portata dietro from the Usa:

  • Il terrore per i germi. Che, prima, pensavo fosse una roba un po’ da pazzi, poi però ho sperimentato sulla mia pelle che i miei figli si ammalavano di meno se avevamo certe accortezze. E ammetto di essermi fatta prendere un po’ la mano: ho un gel igienizzante per mani in ogni borsa da usare dopo ogni gita al parchetto, supermercato o luogo pubblico dove i Saurini abbiano ficcato le loro manine. Pulisco il carrello prima di metterci dentro il Baby Sauro, soprattutto il manico che lui ama tanto ciucciare e ho anche comprato un copri-carrello (negli Usa ci sono le salviettine igienizzanti vicino ai carrelli, sempre). Fazzoletti rigorosamente kleenex da usare solo una volta e da non mischiare tra i componenti della famiglia (si fa quel che si può, ovvio…). E soprattutto lavarsi le mani, sempre e comunque. Ecco l’ho detto. Io e la mia (nuova) ossessione. Però funziona, ve lo garantisco. E comunque bisogna aggiungere che io per evitare di passare ulteriori notti insonni con bambini raffreddati, vista la media delle ore dormite in questi ultimi dieci mesi, farei praticamente qualsiasi tipo di stregoneria.
  • Le confezioni GRANDI. In primis il latte fresco, che io non so come facevo a vivere prima con queste confezioncine da un litro che a casa mia sparisce in meno di un giorno, e il Baby Sauro beve ancora la formula. E sono sicura che tante mamme italiane sono nella mia posizione: facciamo una petizione e importiamo il gallone, vi prego. La stessa cosa per le salviette da bambini; confezione da 52?!? Ma scherziamo? Ridatemi le mie 1445 salviette da comprare una volta all’anno! Carta igienica, Scottex, pasta, pummarola, voglio comprarle una volta al mese e non pensarci più.
  • L’inesistenza della stagionalità. Sulla mia lista della spesa americana c’erano sempre avocado e lamponi, per dire. Qui i frutti di bosco a novembre non si trovano, perdindirindina. Voglio trovare il cocco tutto l’anno e i lychees non solo a Natale a 95 euro all’etto.
  • Chiedere sapendo di essere aiutata. Dai call centre alle commesse nei negozi, in America, tutti erano lì per far si che la mia esperienza fosse la migliore mai provata. E ci credevano davvero. Anche se erano una lavoratrice part-time in un supermercato di un km quadrato e quasi sicuramente non mi avrebbero mai più vista. Anche se chiamavo arrabbiata per lamentarmi. In Italia no. Proprio proprio no. Qui ci si rimbalzano le colpe, si staccano i telefoni per non dare risposte scomode, si fanno spallucce o il proprio lavoro sbuffando. Uno dei primi giorni che siamo tornati, non avevo ancor troppa dimestichezza con il supermercato ed ho chiesto ad una ragazza che lavorava lì (stava mettendo a posto i deodoranti tra l’altro, non al banco della carne) dove fossero i cotton fioc. Lei si é girata, mi ha guardato e mi ha detto: “Eh, bella domanda.” Poi si é rigirata ed ha continuato con il suo lavoro. Credo di aver richiuso la bocca solo mezz’ora dopo.
  • I miei diritti di acquirente. Giusto o sbagliato, negli Usa il consumatore finale é sacro e può avanzare qualunque pretesa (non sempre assecondata é ovvio, ma può provarci). Quindi sono diventata quel cliente che nessuno in Italia vorrebbe avere: “questa copia del libro in offerta ha la prima pagina piegata, mi fa un altro sconto?” “Lo so che é già in offerta, ma ne sto comprando tre pezzi! Può farmi qualcosina in meno?” “Mi serve per oggi, altrimenti no grazie.” “Posso parlare con il responsabile?” Ecco, se mi vedete entrare siete liberissimi di trattarmi come Hugh Grant con il cliente rompiscatole in Notthing Hill.
  • Non ti piace? Riportalo! E diosolosa se non ci ho provato. Ho ricevuto indietro un buono, da usare solo in quel negozio. Nei giorni dispari. Tra le tre e le cinque. Ma non vale quando piove.
  • Professionalità innanzi tutto. Che tu sia un venditore di telefonini, una maestra d’asilo, un tecnico del gas o un impiegato di un call center appaltato in Albania, io devo potermi fidare di quello che mi dici. Perché é il tuo mestiere e non il mio. Perché sei tu quello incaricato di occupartene e di sicuro c’è tanta gente là fuori che sa quello che tu non sai e meriterebbe il tuo posto. E in America é così quasi al 100%. Quindi, dopo essermi scontrata con un paio di situazioni Italiane al limite del Fantozziano io cui davvero mi chiedevo perché quel particolare esercizio/servizio/impiegato fosse ancora lì, ho deciso che l’unico mezzo che ho io in quanto consumatore per contrastare la poca professionalità é quello di non avvalermi dei servizi che non ritengo degni. (Infatti l’altro giorno ho fatto 5o chilometri per andare in libreria…)

 

So goodbye yellow brick road.

IMG_0539 I traslocatori italiani erano stati tipicamente italiani: arrivavano, si sedevano al tavolo della cucina, “che signó ce lo fa un caffè”, impacchettavano tutto poi si dimenticavano di togliere le pile o di segnare i numeri di serie, e via di nuovo, andavano via alle 10 e “che signó ci firma fino a mezzogiorno”. Però erano stati efficienti e comprensivi. Mi avevano raccontato storie buffe di baroni che traslocavano da un castello all’altro, in Transilvania e avevano fatto il loro sporco lavoro.
Con i traslocatori americani invece è stata un’altra storia: estremamente efficienti, puntuali, professionali. Sempre a chiedere se tutto andava bene e a sperticarsi in lodi e ringraziamenti. Customer oriented, si dice qui, ovvero in tutto e per tutto dalla parte del consumatore. Sulla carta. Ma la vera realtà è che di noi gliene fregava ben poco. Loro erano lì per fare il loro lavoro, in due giornate e via a testa bassa come dei caterpillar.
Hanno iniziato da un angolo della casa e da lì hanno proceduto in senso orario, a testa bassa, senza guardare in faccia nessuno.
Uno stormo di cavallette in un campo di grano. Dopo il loro passaggio, niente si era salvato dall’inscatolamento selvaggio. Ho ringraziato il cielo più volte che i miei figli fossero a scuola evitando il rischio di essere anche loro inscatolati a tradimento.
Nell’ordine han messo via: diverse scatole vuote, contenitori di alluminio chiaramente usati, una scatola da 100 cannucce con dentro due cannucce, tutte le ciabatte degli hotel, alcuni altri quintali di scatole di giochi vuote, e una ghirlanda di pino vero datata inverno 2012. Ci hanno raccontato di gente a cui hanno inscatolato i piatti della colazione da sotto al naso, compresi di mezzo muffin, e non stento a crederlo.

Nonostante tutto però siamo sopravvissuti. Sopravvissuti al riempimento di un container da 40 piedi, allo smontaggio del parco giochi, alle pile di “roba da tenere” “roba da buttare” “roba da donare” “roba da vendere” e “roba da regalare”.
Sopravvissuti alla pulizia della casa, soprattutto alla sindone di polvere che riesce a formarsi sulla moquette bianca sotto ad un letto king size.
Sopravvissuti ai saluti. Agli abbracci. Alle feste di addio. Agli ultimi sguardi ai nostri posti speciali. All’ultimo giorno di scuola. (Dove io, da brava mamma italiana emotiva e caciarona, ho fatto piangere tutte le maestre.)
Sopravvissuti ad una settimana in residence, lo stesso dove eravamo arrivati due anni e mezzo fa, che però questa volta sembrava tremendamente piccolo e angusto.
Sopravvissuti a un milione di pranzi fuori, visto che nel residence c’era la piscina ma non le pentole. (Dopotutto sono americani, cucinare mica cucinano.)

E adesso siamo qui, in questo ennesimo volo transoceanico, l’ultimo da Detroit, almeno per qualche tempo. Il volo peggiore che potessimo aspettarci, pieno zeppo di bambini urlanti. Non lo so per quale congettura ma vicino a noi ce ne saranno almeno 20 sotto i 5 anni, e tutti piangono, a turno. Compreso il mio Baby Sauro, che mezz’ora prima della partenza dal residence è diventato improvvisamente bollente di febbre.
Giusto per dare un po’ di pepe all’avventura, come se un milione i bagagli pesantissimi, due bambini, un passeggino e un marito esausto non fossero abbastanza.

Goodbye Michigan. You will be missed. Ma anche no.

I don’t care what they’re going to say. Let the storm rage on.

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Ieri sono andata al supermercato con la mia maglietta preferita, quella che però mi fa la pancia. Nonostante tutto la metto perché mi piace il colore, il materiale, il taglio e soprattutto l’illustrazione. Non che sia una maglietta particolarmente impietosa, intendiamoci, la verità é che io la pancia ce l’ho eccome e quella non é una maglietta magica. Ed é pure vero che ho partorito da “poco” ma comunque questi otto mesi di bagordi, barbecue, confort food e birrette celebrative (anche solo per essere arrivata vive a fine giornata), non hanno aiutato.

Comunque ero nel parcheggio, e pensavo alle cose che mi mancheranno del Michigan, oltre all’hummus e al guacamole nel banco del fresco, dico, e di sicuro portare con leggerezza la mia maglietta che mi fa la pancia sarà una di quelle. In generale la sensazione di essere accettati per quello che si é, di non essere giudicati. L’ossessione per la forma fisica esiste negli Stati Uniti, sicuramente meno in provincia che nelle grandi città come Los Angeles per dire (e Detroit non é Los Angeles, questo si sa) ma comunque uno degli scogli tra i ricchi ed i poveri é lo stato del fisico. Qui, al contrario dell’Africa, più sei benestante più sei snello, atletico, aitante, più sei povero più sei obeso, molliccio e informe ma comunque non sei tacciabile di giudizio. Ovviamente parlo del giudizio espresso a parole (o ad occhiate o a status truffaldini su facebook, per dire), che alla fine é l’unico che ci fa male davvero. O se non ci fa male perché abbiamo un’autostima alta (o un interlocutore talmente cretino da riuscire a non dargli peso), dobbiamo pur sempre prenderci il mal di pancia di rispondergli.

In Italia se siete fortunate ve la caverete con un’occhiata d’intesa e un successivo vostro strabuzzamento degli occhi come a dire: ma sei scemo? Poi ci sarà anche chi arriva in quarta: ‘Congratulazioni, non sapevo! Allora fate il terzo?’ E se siete particolarmente sfortunate potreste anche trovarvi a rispondere a domande da inquisizione spagnola tipo: ‘ma come li mantenete?’ (true story)

Allora, cari italiani (o dovrei dire italiane…), partendo dal presupposto che per statistica ci sono più donne grasse che donne incinte, più pance da amatriciana che da gioia della vita e che, tra l’altro, le loro pance non si assomigliano per nulla, pensateci due volte prima di accarezzare gli stomachi altrui con sguardo complice. Qui giusto a 15 giorni dal parto, quando era evidente anche ai ciechi che fossi incinta (o avessi donato il mio corpo alla scienza come incubatrice di cocomeri) qualcuno ha osato farmi le congratulazioni. In Italia le ricevevo mensilmente… Dopo il matrimonio poi son stata più ingiustamente congratulata io che Obama il giorno dopo l’elezione presidenziale. Lasciate in pace le mie maniglie dell’amore e non preoccupatevi dei miei rotondeggiamenti, che anche decidessi di fare il terzo (il quarto o il quinto) non vi chiederei comunque di comprargli i pannolini.

Lasciatevi essere, non fatevi ingannare dall’idea galoppante che chi ha la pancia piatta é più meritevole di chi ha i rotoloni. Grasso é diventato un insulto pari a cretino, e non solo alle elementari. Leggete un libro in più quest’estate e non quello sulla Dukan. Non fatevi convincere che Jessica Simpson abbia imparato la differenza tra il tonno e il pollo, solo perché a perso i chili della gravidanza. E soprattutto non parlate di cose che non sapete, prendete esempio dagli americani, parlate del tempo. Dopotutto, a quanto ho sentito, ne avete da dire in questa metereologicamente tremenda estate Italiana.

 

 

 

But today the way I play the game is not the same.

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Tra tre settimane più o meno si torna in Italia. Tre settimane per impacchettare tutto, decidere cosa vendere, cosa regalare, se fare una garage sale, se fare una festa di addio con gli amici del Sauro.
Quando siamo partiti dall’Italia eravamo decisamente meno consapevoli e molto più preoccupati. Di feste di addio non se ne era assolutamente parlato, anzi con le persone che più mi dispiaceva lasciare c’era stato solo un grande abbraccio e un “a presto”, come se ci dovesse davvero vedere la settimana dopo. Poi piano piano, arrivederci dopo arrivederci in questi due anni e mezzo, ho imparato a non smetterla di passare al controllo sicurezza dell’aeroporto di Caselle, come Frodo tra i cancelli di Mordor ed ho imparato che certe cose stanno nel cuore, anche a seimila chilometri di distanza. E non è l’unica cosa che ho imparato stando qui. Forse la chiave di tutto è proprio questa: ho imparato più in questo periodo americano (non facendo formalmente niente) che in tutto il resto della mia vita. O meglio, forse no, ma ho imparato tanto.

Ho imparato quali sono i miei limiti e quanto è terrificante doverli affrontare ma anche che poi dopo ti senti un leone. Un leone che ha appena agguantato una gazzella, e balla la samba nella foresta, davanti al gruppo delle leonesse.
Ho imparato a bastare a me stessa e che per quanto gli altri siano importantissimi, alla fine il lavoro sporco va fatto da soli. Più nel pratico ho imparato a risolvere i problemi quando ero sola con due figli piccoli e chiunque altro mi avrebbe potuto consigliare era beatamente addormentato dall’altra parte dell’oceano.
Ho imparato a prendere decisioni con la spada di Damocle che se tutto fosse andato male sarebbero stati solo cazzi miei. E anche questo è terrorizzante, ma dopo leoni, samba, cucaracha e autostima a mille.
Ho imparato ad ascoltare i consigli di tutti ma poi a far solo di testa mia senza farmi affondare dai sensi di colpa o a far qualcosa perché qualcun altro pensa sia giusto per te. E questo è stato davvero come levarmi dalle spalle uno zaino da cento chili dopo aver scalato l’Everest. Ho ballato libera e felice sotto la pioggia, al canto di Freedom di George Michael. Non letteralmente ovviamente, che son troppo vecchia, ma nella mia testa ero perfetta e leggiadra come gli uccellini di Cenerentola.

E poi ho imparato che i pregiudizi sono le catene che ci tengono legati in un posto orrendo, strapieno si gelosia e invidia con la pretesa di sapere tutto a priori con le nostre solide inutili certezze coltivate nella provincia (di Torino, Napoli o del Midwest).
Ho imparato a convivere con gente di razze, provenienze, istruzione, credo religioso o politico, aspetto fisico o grado di sanità mentale diversi e ho imparato che ognuno ha la sua storia e io non ne so proprio niente.
Ho imparato a non giudicare nessuno per come si mostra all’esterno.
Ho imparato a dare a chiunque la propria chance.
Non che poi sian tutti buoni, intendiamoci, ci sarà comunque chi parlerà alle spalle, chi instillerà cattiverie e chi ruberà portafogli. Ma non è l’aspetto fisico a determinarlo.

Quindi me ne torno a casa, con un container pieno di cose fisiche e un bagaglio ancora più grande di lessons learned, come si dice qui.
Resta solo da vedere se tutto questo perdurerà la prima volta che gli operatori telefonici cercheranno di fregarmi o la commessa di un negozio mi squadrerà da capo a piedi perché non ho la taglia 40 o cercheranno di passarmi davanti dal panettiere.
Cercherò di ricordarmi a come si stava bene a danzare nella pioggia per festeggiare. O in alternativa quanto cazzo sono stati freddi e lunghi i miei inverni americani.

 

Oh, trust issues.

Così mancano sei settimane al nostro rientro definitivo in Italia. Definitivo per ora, dico, che le vie del Signore, si sa, sono infinite. Comunque per ora prendiamo baracca e burattini o meglio un contanier e tanti pezzi di vita e torniamo nel Bel Paese. Ovviamente fino ad ora la cosa é stata affrontata nell’unico metodo possibile: tamponare le emergenze e per tutto il resto, gattini. Tanto più che sabato ce ne andiamo tra Florida e Caraibi per 10 giorni, così per salutare il continente americano. Ultimamente quindi mi trovo a pensare “questo sì che mi mancherà” oppure “questo non mi mancherà per nulla”. E con la prima affermazione intendo principalmente l’efficienza delle strutture pubbliche, il verde verde, la muticulturalità, gli amici, l’assenza di giudizio da parte di chiunque (almeno apparente, ma comunque meglio che essere squadrati da capo a piedi dagli sconosciuti in Italia) e soprattutto Target. Mentre per la seconda, senza alcun dubbio, il clima.

La cosa che più mi mancherà in assoluto sono sicura sarà il Servizio Clienti. Qui il cliente ha sempre ragione, nella misura in cui non viene messo in dubbio, mai, che la sua lamentela possa essere mossa da motivi non nobili. In poche parole il cliente non se ne approfitta e se sta riportando un dito della bottiglia di vino che ha comprato é perché davvero ne ha dovuti bere cinque/quinti per accorgersi che era cattivo. O meglio questo é il presupposto da cui si parte per migliorare la tua esperienza di acquirente. Ovviamente qui esistono per la stragrande maggioranza esercizi commerciali enormi che possono permettersi di farsi fregare un pochino purché tu continui a comprare da loro invece che dal loro concorrente. La stessa cosa non potrebbe probabilmente funzionare per i piccoli esercizi a conduzione privata dove ogni singola bottiglia di vino venduta contribuisce effettivamente al ricavo dello stipendio.

A parte questo però, dare fiducia al cliente funziona esattamente come dare fiducia ad un ragazzo diciottenne, invece che guardarlo a vista e spiare le sue email: ci sarà chi se ne approfitterà, chi farà qualcosa che davvero non deve fare ma soprattutto ci sarà chi si sentirà inorgoglito e si comporterà come di deve in modo da non perdere la fiducia acquisita. Per i clienti é lo stesso: io parto dal presupposto che tu non mi freghi e che sei in buona fede, e tu di conseguenza non avrai nessun motivo per volermi fregare.

L’altro giorno ad esempio sono andata da Target appunto a comprare dei regali per  i bimbi di un’amica che avrei visto a Toronto. Come succede sempre in quel negozio (qui una lista dettagliata di quello che succede ad ogni donna da Target, sempre ), sono entrata per comprare due cose e sono uscita con tre borse. O meglio due perché una, non so se per distrazione mia o del cassiere, é rimasta lì. Quando sono arrivata a casa mi sono accorta che mancava qualcosa, ho appuntato sullo scontrino quello che mi ero persa ed ho chiamato il negozio. Mi han fatto parlare con il cassiere, che é stato facilmente reperibile perché uguale uguale ad André Leon Talley, senza la cappa e lui mi ha detto che la borsa non c’era (probabilmente presa dalla signora dopo di me, per cui il discorso sulla fiducia agli adolescenti non calzava un granché…) ma di passare in negozio appena potevo che avremmo visto come fare.

Il giorno dopo mi son presentata con i due Sauri al Servizio Clienti (ci sarebbe un altro capitolo da scrivere sul perché mai mai entrare da Target con i bambini pena il prosciugamento del plafond della carta o in alternativa sceneggiati napoletani alla cassa – ma non potevo proprio far diversamente visto che saremmo partiti per il Canada subito dopo) ed ho spiegato il mio problema mostrando il mio scontrino nel quale avevo segnato le cose che mi mancavano: tre magliette, un pacco di Lego Mixels e quattro yogurt. Mi han detto di andare a riprendere le cose che mi mancavano e tornare alla cassa e così abbiamo fatto e ci hanno ridato tutto, gratis.

Avrei potuto dire che mi mancavano 24 dollari di latte in polvere, per dire, che stavano sullo stesso scontrino e me lo avrebbero ridato senza problemi e invece proprio per questa questione del tu ti fidi di me e io non ne approfitto, ho riportato a casa solo ed esattamente il mancante. Che era quello che volevo alla fine.

(Piú uno zaino si Spiderman, una maglietta dei Minion, due confezioni di salsa di mele e un pacco di Oreo ai lamponi… ma questa é un’altra storia!)

So pop your Pérignon.

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Di recente abbiamo iniziato a partecipare ai primi compleanni dei compagni di scuola del Sauro. A quanto pare non é che nessuno ci volesse perché eravamo strani, ma semplicemente i compleanni “pubblici” qui iniziano a farli dai 4 anni, e infatti adesso siamo subissati di inviti. Nella terra del “tutto facile” anche i compleanni sono organizzatissimi, scanditi da una routine ferrea e ovviamente molto impersonali.

I compleanni italiani, soprattutto per le mamme, sono dei tour de force. Non si sa mai bene quanti bambini parteciperanno perché agli invitati potrebbero aggiungersi fratelli piccole e sorelle grandi. Quante delle altre mamme decideranno di fermarsi? Devo preparare del prosecco, just in case? E soprattutto, data l’ora di inizio, quando finalmente si riuscirà a salutare anche dell’ultimo invitato e a ritrovarsi a pulire pizzette dai muri e a togliere carta di regalo da sotto il divano?

I compleanni americani invece sono una catena di montaggio. Allegra, gioiosa, divertente quanto vuoi, ma assolutamente super organizzata in ogni sua parte. Innanzi tutto, salvo rarissime eccezioni (noi), nessuno si sogna di fare il compleanno a casa propria. A farsi versare il succo di frutta sulla moquette o colorare le pareti della cucina. C’é anche da dire che qui i posti adibiti alle feste di compleanno si sprecano. E alcuni sono davvero bellissimi. Centri gioco al chiuso, parchi pubblici con tettoie adibite alle feste, campi da football per bambini e SPA dedicate alle bimbe in cui farsi fare mani/pedi e maschera con le amiche. Pizzerie che ti fanno impastare la tua pizza per poi cuocertela. Gite in canoa sul lago. Piscine. Tutti organizzano feste di compleanno per il pubblico pagante.

E poi i gonfiabili, che al genio che li ha inventati bisognerebbe dare il nobel per aver reso vivibili le domeniche di pioggia dei genitori di tutto il mondo. Ovviamente i gonfiabili americani sono decisamente più enormi di quelli di Ospedaletti e, così come i parchi giochi, assolutamente anche a misura di adulto. Non ho idea se davvero perché debbano resistere al peso della dodicenne messicana imbottita di fajitas o se perché hanno pensato ai genitori del bambino piccolo (o fifone nel mio caso) che non vuole scendere da solo dallo scivolo e per aiutarlo si trovano col culo incastrato a metà dello scivolo coperto, comunque io a scendere a rotta di collo dallo scivolo gonfiabile di 15 metri a pendenza 180 gradi, mi sono divertita da matti!

Quindi, eccovi la cronaca di un compleanno tipico, ai gonfiabili, tema Power Rangers:

Innanzi tutto l’invito arriva come al solito un paio di mesi, prima, la risposta deve arrivare almeno 15 giorni prima. Assolutamente in tempo per dimenticarsi di entrambi, conferma e party e trovarsi 5 minuti prima a girare compulsivamente per Toys r Us alla ricerca del regalo perfetto. La busta, la carta da pacco e il biglietto. Noi facciamo sempre dei regali belli, anche perché il Sauro ne ha sempre ricevuti di meravigliosi, diciamo di budget 30/40$ che é più o meno anche la media degli altri. I nonni e parenti vari invece a quanto pare sono abituati a fare dei regali orrendi. Un pacco di pastelli a cera. Un supereroe immobile. Un paio di calze di Batman. Credo che dipenda dal fatto che qui fan tutti figli come conigli e tra compleanni, Natali e poca pensione, bisogna fare economia…

Ovviamente il compleanno ha un orario di inizio e uno di fine. Che non é indicativo: é quello. Dalle 4 alle 6, nella fattispecie. Arrivati nel capannone che ospita i gonfiabili, si viene ricevuti da una hostess, si dice il nome del festeggiato e si lascia il regalo in una scatola a rotelle, con tutti gli altri. Dopo di che si viene introdotti nel girone infernale dei compleanni saltellanti: una stanza gigante piena di gonfiabili, bambini che urlando, genitori che per lo più si ignorano (che strano…) e addetti che fotografano il tutto. Le scarpe vengono lasciate  in una scarpiera, anche questa a rotelle.

I bambini quindi incominciano a scatenarsi, rincorrersi e saltare. Il mio in particolare anche a piagnucolare che a paura di salire sugli scivoli più alti, mentre viene scavalcato da duenni cuor di leone. I fratelli sono pochi e assolutamente pre-annunciati. Come ho imparato sulla mia pelle, se vuoi portare un fratello ad un compleanno, innanzi tutto chiedi il permesso, scusandoti perché proprio proprio non puoi fare altrimenti e poi farai due regali, in due pacchetti diversi, uno da parte di ogni bambino. Infatti il Baby Sauro non c’era, anche se Erre ha cercato di appiopparmelo all’ultimo per andare a giocare a golf che “ma si, figurati, alle feste di compleanno tutti son benvenuti.” No, caro. Non qui.

Dopo una mezz’ora di saltellamenti quindi, suona una campanella e bambini, scarpiere, padri reticenti e scatole con i regali a rotelle vengono sospinti nella stanza successiva. E si ricomincia. Il tutto finché non si arriva all’ultima stanza: i bambini vengono messi in fila per le foto di rito col festeggiato, arriva il Power Ranger in carne, ossa e tutina acrilica attillata a far vedere i muscoli e abbracciare i mocciosi ormai super eccitati e esausti, dopodiché ci si rimette le scarpe e si aspetta in fila di entrare nell’ultima stanza dove ci saranno torta e regali. Ogni bambino, prima di entrare, verrà invitato a passarsi nelle mani il famoso antibatterico americano, quello che qui si trova ovunque, dall’uscita delle giostre, al reparto carrelli del supermercato ad ovviamente gli ospedali e le scuole. Quello che io all’inizio ero abbastanza scettica a far usare così smodatamente, ma poi visto che mio figlio in due anni e mezzo di asilo dodici mesi su dodici ha saltato tipo tre giorni di scuola per malattia, adesso trova in me una fan sfegatata. Che sia quello, le vaccinazioni o solo culo, non lo so, ma meglio non sfidare la sorte.

L’ultima mezz’ora quindi si svolge in una stanza che finalmente ha le finestre e nessun posto su cui saltare, panche e tavoli da pic-nic sono stati apparecchiati con piatti e palloncini a tema. I bambini vengono sfamati a suon di pizza e patatine, sui televisori alle pareti si proiettano le foto che sono state fatte durante la festa, naturalmente acquistabili per venti dollari. Il Power Ranger fa accomodare il festeggiato su un trono (anch’esso gonfiabile) e gli passa i regali, con tanto di real annunciazione , del nome del donatore. Torta di polistirolo, canzoncine di rito, favours (che poi sarebbe un sacchettino pieno di regalini da parte del festeggiato, come ringraziamento) e alle 6 in punto tutti a casa.

Niente Fanta appiccicosa sul pavimento di casa, niente scenate “Ancora cinque minutiiiii”, tutto funziona come una macchina ben oliata e soprattutto nessun fuori programma. That’s the American way! (E dal prossimo compleanno io ne perderò sicuramente spunto…)

It’s a helping hand that makes you feel wonderfully bland.

Roger é il nostro padrone di casa. Questa é la sua casa, in effetti. L’ha costruita come la voleva lui e ci ha abitato con la moglie, finché lei non é morta di cancro.

La moglie di Roger, sebbene sia morta da una decina di anni, qui tra i vicini se la ricordano tutti. Persino le mie due vicine, quella di destra, caciarona e perennemente in costume da bagno (avendo il fisico di Platinette) e quella di sinistra, orientale, elegante come una farfalla e riservatissima, che tra di loro si odiano, mi hanno invece parlato benissimo di lei. Mi hanno raccontato di come non potesse avere figli e di quanto questo l’abbia resa tremendamente infelice, ma non abbastanza da non giocare per ore in piscina i bambini della vicina di destra. E mi hanno detto quanto amasse il giardinaggio. Effettivamente il nostro giardino, dopo dieci anni di incurie é ancora bellissimo. Da aprile a novembre, ciclicamente, spuntano fiori diversi che una settimana prima manco sapevi fossero lì, abbiamo delle camelie da togliere il fiato e due alberi di mele ed una distesa sterminata di mughetti. Certo se invece del gigantesco giardino roccioso ci fosse stata una bella piscina, noi avremmo preferito, ma almeno il Sauro grande ha avuto la sua foresta personale, in cui perdersi a giocare.

Roger invece é una di quelle persone che quando le vedi vorresti abbracciarle e dirgli che andrà tutto bene. Parla della moglie con un amore infinito e gli occhi tristi. É esattamente uguale a Walter Matthau quando fa L’Irresistibile Brontolone. Si vede che gli manca qualcosa e quel qualcosa é la sua prima moglie. Perché certo, si é risposato, che qui siamo in America dopotutto.

É vestito uguale tutto l’anno, dai meno trenta ai più quaranta: jeans, scarpe da ginnastica e felpone, relativamente luridi. Ha origini Olandesi e in effetti sembra proprio uno di quegli olandesoni Hooligan che vedi alle partite dell’ Ajax. É un ingegnere in pensione, che é stato ai gran premi quando correvano Mansell e Senna e a Maranello e parla un po’ di italiano e il suo hobby principale é restaurare una Ferrari degli anni sessanta. Lo fa da più di dieci anni e quando/se mai sarà finita, varrà una fortuna. Infatti é un’uomo dalle mani sante. E su di me, che ho un marito che con tutto che sa fare le linguine alle vongole più buone del pianeta, non é proprio un amante del bricolage, questo ha un’attrattiva infinita. Ha aggiustato il gabinetto con la stessa maestria e leggiadria con cui pota le aiuole o sistema la caldaia. Ogni qualvolta abbiamo avuto un problema in casa, lui é arrivato e l’ha sistemato in un batter d’occhio. É ormai così tanto il nostro angelo custode che di recente, quando eravamo in albergo e non funzionava la tv, il Sauro ha suggerito di dire alla reception che chiamassero lui!

È l’uomo più buono e accomodante che io abbia mai conosciuto ma io ed Erre, suo malgrado, l’abbiamo trasformato nell’Uomo Nero: ogni qual volta il Sauro veniva sorpreso a tentare di colorare la moquette o scrivere sui muri o andare con il triciclo sul parquet si minacciava di chiamare Roger, tanto che, per un periodo, ogni volta che entrava in casa, il Sauro andava a nascondersi sotto il letto. Non che a lui dispiacesse credo. Ho come il sentore che non sia proprio un amante dei piccoli umani, nonostante tutto. Il Sauro invece ultimamente lo adora: quando lui lavora in giardino pretende di uscire ad aiutarlo nonostante Roger lo ignori. Non che lo maltratti, semplicemente si comporta come se lui non esistesse. E il Sauro invece se ne sta lì a seguirlo come un cagnolino, a consigliarlo sul come potare le siepi, a fargli vedere le sue nuove pistole ad acqua, senza mai ottenere risposta ma neppure uno sguardo. Eppure a lui non sembra importare.

La strana coppia.